Siamo tornati. A scuola. O forse non siamo mai andati via. Collegi, dipartimenti, prove di ingresso. Comincio a credere che i ragazzi non siano al primo posto delle nostre priorità. E aggiungo che forse noi non ci siamo messi al primo posto delle nostre priorità. Un bambino che entra in prima elementare o in prima media o sale le scale per fare il suo ingresso alle scuole superiori chi spera di incontrare? Quale adulto vorrebbe incrociare nei corridoi della sua scuola o veder sfiorare il bordo del suo banco? Se tornassi indietro a quando avevo tredici anni, direi un adulto credibile e che mi dice "Ce la puoi fare" o me lo faccia sperimentare. Una persona che mi piace guardare, a cui mi posso affidare, entusiasmante, che mi sorride di sorpresa. Uno per cui io sono importante, che si spende per me e che si aspetta molto da me, che mi rispetta e cioè impara a conoscere i miei tempi, ha cura del mio spazio vitale, riconosce le mie giornate no, che insomma non mi vuole per forza esuberante e simpatica, collaborativa o perfetta. Non sempre almeno. E ora che sono docente, che cosa chiedo ai miei alunni? Di mettersi in gioco, di esserci, di provare a reagire alle spinte che li costringono a sfidarmi ogni istante (e che sono però alla base della loro straordinaria creatività di adolescenti), ma soprattutto di credere in me e di raccogliere le mie di sfide. Ieri un collega illuminato diceva: "Siamo lì per indicare una strada, una direzione, per aiutarli a scartare quello che non funziona, che non va bene. Guarda lì. Attento. Ti faccio vedere questo: che cosa ne pensi? Ci riesci? Ti aiuto. Basta. Non abbiamo molto da insegnare". Io aggiungo che abbiamo molto da imparare invece. E ora proviamo a diventare i docenti che avremmo voluto avere. E sorridete ogni tanto in classe, soprattutto senza motivo.

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